Trümmerfrauen: la Storia delle “donne delle macerie” tedesche tra realtà e mito

Dresda, monumento alle Trümmerfrauen. Jörg Blobelt, CC BY-SA 4.0 , via Wikimedia Commons
di Nora Cavaccini

Le chiamarono le Trümmerfrauen, letteralmente le “donne delle macerie”.

Quando la guerra finì, e ci furono intorno solo calcinacci e travi, e tubi, e mattoni, e tegole, e pezzi di ferro o di acciaio da raccogliere, furono loro, le donne, ad aiutare in questo lavoro così delicato e impegnativo. Nella sola Berlino le cifre erano impressionanti: 48.000 edifici totalmente distrutti, 23.000 gravemente danneggiati, per un totale di 67 milioni di metri cubi di macerie da rimuovere.

ADN-ZB/Kolbe/Berlin 1947: Beseitigung der Kriegsschäden in der Behrenstraße.
Bundesarchiv, Bild 183-Z1218-316 / Kolbe / CC-BY-SA 3.0, CC BY-SA 3.0 DE <https://creativecommons.org/licenses/by-sa/3.0/de/deed.en>, via Wikimedia Commons

I detriti venivano raccolti e smistati per lo più in zone periferiche; quindi suddivisi per grandezza e tipologia, e infine reimpiegati ove possibile nella costruzione di nuove case, oppure adoperati per realizzare colline artificiali (come avvenne, ad esempio, a Teufelsberg).

Gli scatti dell’epoca immortalano file di donne, le une accanto alle altre, spesso con pantofole di pezza ai piedi e fazzoletti in testa, armate di secchielli, badili, picconi e carriole. In mezzo ai sassi, alle pietre e alla polvere, stanno le sopravvissute alla guerra, con i mariti morti o ridotti in prigionia, disoccupate. Le madri rimaste vedove, le figlie rimaste orfane.

La loro immagine – solidale e forte – non a caso divenne ben presto un simbolo: quello di un popolo che intendeva riscattarsi e che, per farlo, si appoggiava alla tenacia femminile.

Per queste donne, anzi, passò il mito fondante della Bundesrepublik e l’idea di un Paese in grado di risollevarsi dalle macerie fisiche e morali del nazismo facendo leva sulla sua componente apparentemente più fragile.

Una studiosa ha messo in discussione il mito delle Trümmerfrauen

Di grande potenza evocativa ed emozionale, il “mito” delle Trümmerfrauen è stato messo in discussione dal testo della storica sociale Leonie Treber, dal titolo “Trümmerfrauen: Realität und Mythos”.

Dopo anni di ricerche d’archivio, la Treber (che ha studiato storia e sociologia presso la TU di Darmstadt) ha sostenuto infatti la tesi che la rimozione e il riciclaggio delle macerie negli anni del dopoguerra fu effettuato soprattutto grazie all’impiego di grandi macchine e di lavoratori professionisti del settore, nonché con il supporto di ditte specializzate che misero in campo manodopera qualificata. Le donne, che pure parteciparono, erano però da considerarsi non tanto delle volontarie, quanto delle “Bauhilfsarbeiterin”, delle operaie non qualificate, spesso obbligate da necessità economiche, o dalle stesse forze occupanti, a prestare un servizio che veniva comunque retribuito, seppur malamente.

Bundesarchiv, Bild 183-Z1218-315 / Kolbe / CC-BY-SA 3.0, CC BY-SA 3.0 DE <https://creativecommons.org/licenses/by-sa/3.0/de/deed.en>, via Wikimedia Commons

Inoltre, secondo la tesi della Treber, la loro partecipazione in termini numerici al processo di ricostruzione fu molto meno massiccia rispetto alla verità storica tramandata: a Berlino, appena 26 mila Trümmerfrauen su una popolazione femminile che si aggirava intorno al mezzo milione di unità, e a fronte di un 30% dei lavoratori uomini impiegati nello smistamento di macerie.


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L’interpretazione fornita dall’autrice, dunque, ribalta sensibilmente uno dei cardini principe su cui si costituì il mito della riedificazione tedesca: non furono le donne a offrire la chiave risolutiva al problema della ricostruzione, né fu un fenomeno di massa quello che le coinvolse; piuttosto, si enfatizzò la loro immagine, iconica ed evocativa, per ragioni di propaganda.

Il libro della Treber viene dunque ad intaccare significativamente un immaginario – quello legato alle Trümmerfrauen – che in Germania ha sempre assunto una valenza molto forte da un punto di vista ideologico e culturale, motore per la ricostruzione di un’identità nazionale che intendeva fare perno anche sui cardini della democrazia e della parità tra i sessi.

Un mito che si è continuato ad alimentare anche dopo la riunificazione, attraverso i numerosi memoriali dedicati alle Trümmerfrauen, spesso immortalate in sculture di pietra, rappresentate con la stessa aria, tenace e forte, che le caratterizza in molte delle foto d’epoca. Non stupisce dunque che questo libro sia stato accolto da critiche e dissenso, non di rado anche violente: l’autrice è accusata di farsi pubblicità puntando su un tema popolare, delicato quanto sensazionalista.

Resta un fatto: le fonti di cui si serve sono ampiamente documentate.

In un’intervista, rilasciata alla Süddeutsche Zeitung, la Treber ribadiva anzi perentoriamente le sue posizioni: «[è stata] una storia di successo che suscita emozioni e dalla quale è difficile distaccarsi. Ma ciò non toglie che si sia trattato di un mito costruito».

La verità, come spesso accade, è probabilmente meno romantica di quella che andiamo immaginando. Tuttavia, tra le tante ricostruzioni storiche portate avanti anche dai media, quella delle Trümmerfrauen rimane senza ombra di dubbio una tra le più belle.

Ci scuseranno gli storici se, per affezione, si fatica a riconsiderarla per quella che probabilmente fu.

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