Berlino, Volk Shock Schule

[© Fod Tzello / CC BY SA 2.0], Berlino
[© Fod Tzello / CC BY-SA 2.0]
di Silvana Maiorano

L’italiano a Berlino è un genere malandrino. È un essere molto stanco della vita tricolore.

Esiste l’artista o il laureato. Il sognatore o il grande faticatore. Si scriveranno dozzine di cazzate. Storie bio ma come biografiche, arricchite di una cinematografia avventurosa, invadente e fintamente coraggiosa; oppure quelle tristi per dimenticare e seguire l’amore su una scenografia che va via col vento, o meglio, scivola sullo gelo dello Spree. E si fracassa.

La realtà è che l’italiano a Berlino va in giro con un chilo di freddo addosso, mangia giganti porzioni di kebap ogni giorno, non parla nessuna lingua, usando il tedesco solo per chiedere la birra e sta da Dio. Perché chi lavora a Berlino fa finta che tutto va bene anche se è in nero e chi non lavora prende il sussidio di disoccupazione.

Personalmente mi sento poco italiana e meno di Neukölln. Meglio dire, mi sento viva e da un anno respiro in una città che si chiama Berlino. Non so di chi sia il merito. Forse di un destino scatenato, libero, ma non chiedetemi il significato di questo termine così abusato, spesso associato ad un posto che non è povero non è sexy non è giovane. È autentico.

Chiediti se non è vero.

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Questo racconto breve è stato scritto da uno degli studenti di “Le Balene Possono Volare”, un progetto di Laboratori di Scrittura Creativa per Italiani che ha preso vita a Berlino nell’estate del 2013 per iniziativa di Mattia Grigolo.


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