Nebraska, la felicità vale più di un milione di dollari

Un frame dal film “Nebraska”
Un frame dal film “Nebraska”
Un frame dal film “Nebraska”

di Elisa Cuter
(@elisacuter)

In tutti i road movies, è risaputo, ciò che conta non è la meta ma il viaggio. Ne sembra consapevole David, figlio minore che decide di accompagnare l’anziano padre Woody (Bruce Dern, migliore interpretazione maschile a Cannes) in Nebraska a “prendersi ciò che gli spetta”, pur sapendo perfettamente che quello che il padre crede un milione di dollari vinto alla lotteria non è altro che la trovata pubblicitaria di un volantino promozionale.

Altrettanto risaputo è che i road movies sono il romanzo di formazione americano per eccellenza, ed è in effetti a questo che ci troviamo davanti, nonostante David sia un uomo ormai adulto, e Woody un vecchio sull’ottantina. Quello che Alexander Payne mette in scena nel suo film, da oggi anche nei cinema tedeschi, è infatti un viaggio a ritroso nella vita di Woody, padre imperfetto e alcolizzato.

Un viaggio alla ricerca dei suoi sogni infranti, delle frustrazioni accumulate in una vita vissuta alla periferia dell’impero – un impero che non ha esitato a mandare i suoi giovani in prima linea nella guerra in Corea -.

In sostanza, delle sue giustificazioni. È alla luce di questa consapevolezza accumulata nel viaggio che David, prima teso a differenziarsi dal padre, riesce a comprenderne le motivazioni profonde e a dire a se stesso che la vita può avere un significato anche vendendo elettrodomestici e mettendo su famiglia con la ragazza forse non perfetta di cui però si è innamorati da tanti anni.

Quelli che vediamo in scena sono sentimenti in sordina, che disorientano lo spettatore non raggiungendo mai un climax sentimentale che non sia smorzato da una battuta cinica, da una scena successiva in cui quello che sembrava il senso ultimo del rapporto tra i due non venga nuovamente ribaltato.

È un accorgimento forse un po’ abusato nel cinema indie americano, che permette a un pubblico sofisticato di commuoversi evitando il patetismo. Ed è sicuramente tipico di Payne, abituato a muoversi nelle retrovie, le “Sideways” del sogno americano – rappresentato in un bianco e nero lirico e disilluso nei suoi “non luoghi”, in cui anche il Monte Rushmore non sembra dissimile da una desolata pompa di benzina – e in quelle dei rapporti umani, sempre complessi e stratificati come appaiono tra i vari personaggi, quasi tutti stereotipici di una differente debolezza umana (e quindi comici anche e specialmente quando tristi).

Ciò che resta impresso maggiormente del film è però il personaggio di Woody, paradigma di tutta una generazione (anche di cineasti?) ostinatamente introversa, che cerca con fatica alla fine dei suoi giorni di rendersi comprensibile ai suoi figli – distanti anche per colpa dell’introspezione eccessiva di cui lo stesso Payne è esempio -. Per questo Nebraska è il racconto di una tregua e un avvicinamento tra due modi diversi e lontani di guardare il mondo, e conseguentemente di fare cinema.