Unconventional Berlin Diary: autunno a Berlino, dalla musica al rumore

Photo by janwillemsen

Ho ripreso a leggere in metropolitana. Per molto tempo ho preferito isolarmi ascoltando musica, con rotazione diligente dei brani che scandiscono le mie giornate da circa tre anni, vale a dire da quando mi sono trasferita in Germania. Alcuni sono diventati quasi parte del paesaggio, perché hanno accompagnato esperienze di luoghi e cose che non dimentico e a cui si saldano.The next day” di David Bowie, Colonia. Ricordo ancora quando andai a comprare il Cd con Wolfie, in un negozio di Neumarkt.

Long way down“, Black Rebel Motorcycle Club. Ancora Colonia e io che guardo la neve dalla finestra della cucina con il pavimento a scacchi bianchi e neri, ipnotico e bello come un racconto di Lewis Carrol. Brody Dalle e la strada con i girasoli, a Sülz. Mark Lanegan e il mercato di Heumartk.

E poi Berlino. Das Lied ist aus” di Marlene mi ricorda la fatica dei giorni più duri, quando arrivavo con la U7 fino a Rathaus Spandau e poi prendevo un autobus che mi portava ancora più lontano, tra la nebbia. Philip Glass mi richiama alla mente Schönhauser Allee e il violoncellista di strada che replicava uno dei brani della mia playlist, Runaway horses, dalla colonna sonora di “Mishima, a life in four chapters”. E poi c’è stata la fase delle band della DDR, ascoltate spesso a Pankow per pura pedanteria filologica. Le ho scoperte dopo aver intervistato uno scrittore cresciuto ai tempi del Muro e prodigo di aneddoti sulla storia dei Sandow, dei Feeling B e dei Die Firma, che addirittura nascondevano nella lineup due collaboratori della Stasi.

In questi tre anni ho guardato il mondo senza sonoro, preferendo alle voci della città le Desert Session di Josh Homme, Rachmaninov, Ty Segall, Emma Pollock, i Fugazi e la magia degli Swans. Michael Gira ha una voce che sembra fatta di frammenti di vetro, graffia e lascia segni che diventano indelebili quando ascolti quello che dice.

Ad ogni modo, niente più musica nelle cuffie, per il momento. Ho fatto pace con i suoni naturali della strada, con il sibilo delle porte della metro che si aprono e si chiudono, con la gente che tira su col naso perché veste ancora abiti leggeri anche se la temperatura è scesa a picco, con il rumore soffocato dei coperchi di plastica che saltano su tazze di presunto caffè. E leggo, leggo molto, soprattutto nel tragitto tra una stazione e l’altra. Da qualche giorno nel mio zaino è comparso “The children act”, di Ian McEwan. Parla di una giudice che deve decidere il caso di un diciassettenne che rifiuta di farsi curare per motivi religiosi. Ho iniziato questo libro con grandi aspettative, ma per il momento sono ancora invischiata nei problemi coniugali della protagonista. Mi sarei aspettata di avere a che fare con crisi di coscienza e riflessioni giuridico-morali, invece mi trovo a dovermi sciroppare il solito matrimonio in crisi che ha già devastato il cinema. Però attendo fiduciosa. Dopotutto McEwan è in grado di stravolgere le sue storie nel finale e lo ha dimostrato con “Atonement”, che da questo punto di vista è un vero capolavoro.

Intanto ha iniziato a piovere. Le belle giornate di sole che, fino a una settimana fa, sembravano irreali, ora lo sono davvero. Il cielo è grigio, fradicio, gelido. Cerco di scampare agli artigli dell’autunno rannicchiandomi appena posso nel mio bellissimo letto a due piazze, caldo, comodo e con vista sul giardino. I panorami desolati hanno un indubbio fascino poetico, ma solo se non sei parte del paesaggio. Una bella alternativa alla vita, quando puoi permetterti il lusso di essere contemplativo.

Colonna sonora: “Long Way Down”– Black Rebel Motorcycle Club

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Machete

Machete vive a Berlino dal 2013, in modo intelligente dal 2007 e in modo autoanalitico dal 2017.

Ama scrivere e girare il mondo e il suo più grande sogno è di poter combinare le due cose, un giorno. Ama anche la musica, il cinema, la letteratura e la serotonina.

A otto anni sperava che prima o poi qualcuno avrebbe inventato una pillola contro la morte.

Un po’ lo spera ancora.