Intervista a Vinicio Capossela: sono un politeista, non un integralista

Vinicio Capossela
Sven Mandel, CC BY-SA 4.0 , via Wikimedia Commons

Intervista a cura delle nostre redattrici Letizia Chetta e Alessia Del Vigo. Vinicio Capossela sarà in concerto a Berlino il 18.05.2017. Il suo ultimo album è “Canzoni della cupa”.

Attraverso un telefono Vinicio Capossela riesce a portare il suo interlocutore in mondi lontani, in un racconto, dentro una fiaba, in un’archeologia dei luoghi e delle persone.

Letizia:

Quali sono le tue principali fonte d’ispirazione?

Sono un politeista, non un integralista. Non uso solo un unico sistema, un’unica fonte, ma più sistemi e più fonti: specialmente andare nei territori e cercare di indagarli. Il territorio indagato per le canzoni del penultimo album era un territorio vasto, quello delle terre di mare, sulla letteratura di mare (in cui confluisce anche parte della mia esperienza personale). In questo ultimo album (“Canzoni della Cupa”), invece, è un territorio che studio da tempo e che alla fine ha portato alla nascita di due dischi (uno sulla polvere, l’altro sull’ombra). Si tratta di un grosso lavoro su una zolla di terra dell’Irpinia, dell’Italia “interna”, più impenetrabile alla storia. C’è tutto il patrimonio folkloristico, le leggende, vecchie canzoni degli anziani, la cultura orale, insomma. Un mondo d’antropologia dove dall’ultravocale si passa all’ultrauniversale.


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In che modo la Germania ti ha influenzato musicalmente?

Per questo album sono incappato in diversi autori tedeschi come Jung, Hoffman, Nietzsche. Poi tutto il mondo del romanticismo tedesco, pieno di parti in ombra. Non so il tedesco. Ma rimango affascinato dalla sua lingua e dalla capacità morfologica del distinguere le parole, come nella differenza tra Heimat e Vaterland. Io mi riconosco nella Heimat, cioè il concetto di casa e “patria intima”. Le canzoni della Cupa sono legate a questa accezione di patria, a questo sentirsi a casa, una dimensione che si trova nel racconto.

C’è una canzone o un album che sono legati particolarmente alla tua esperienza tedesca?

L’album “Canzoni a Manovella” e la canzone “I pianoforti di Lubecca” sono forse quelle che più connetto alla Germania. Questa composizione parla di un magazzino di pianoforti che è un po’ il loro ricovero, sono vecchi cani senza padrone, con nomi propri.
Oppure, ispirata da Amburgo, “La camera a sud”.
Poi c’è anche la mia affezione per la figura infantile di Pierino Porcospino: Struwwelpeter.

Quali canzoni porterai al concerto?

Quelle dell’ultimo album, “La cupa”. Ma farò anche alcune canzoni dei miei album precedenti, non sono assolutista!

Alessia:

Hai una città “del cuore” in Germania?

Lubecca: una delle città in cui sono stato poche volte ma a cui mi dico molto legato. Sono molto affascinato dalle città anseatiche.

Sono previsti altri tour all’estero?

Due in Spagna e uno a Parigi, a ottobre. Questo disco uscirà in Francia a settembre. Poi suonerò ad Atene in giugno.

La scenografia e i costumi, i copricapi: c’è una ragione?

I copricapi servono ad evocare un personaggio in modo molto semplice, come nel caso del cappellaio matto. Io sono sempre stato molto attratto dai cappelli, che sono lo strumento più semplice per creare un personaggio, per dare un’idea di scenografia.

In Germania che rapporto ha Vinicio Capossela con il pubblico tedesco? La ricezione e il gusto sono diversi? Si deve accentuare o cambiare qualcosa durante i concerti?

Suonando all’estero, in generale, c’è un rapporto più libero verso l’opera, non è prestabilito. Non tutte le canzoni sono conosciute, così si scende dall’elemento celebrativo, si è più liberi rispetto all’opera.

Riguardo a questo album della cupa si è parlato di ombra e luce. Dove e in che momento della giornata preferisci scrivere?

Non è questione del momento della giornata, è isolarsi, fare… Ci sono fasi in cui mi metto a disposizione della scrittura ed è l’unica cosa che faccio: andare a caccia di segnali, parole. Importanti sono anche i luoghi, anche per quanto riguarda la registrazione. Luoghi che siano legati al testo, all’opera, anche se non perfetti a livello di acustica. È un po’ come mettersi per strada, è un rapporto abbastanza… agricolo! Si tratta di seminare. Farsi arrivare degli impulsi da dove si è, nel paesino dell’Irpinia con le case semiabbandonate, d’inverno. Si diventa quasi rabdomanti quando si scrive.

Qual è la tua lettura del momento?

Varie cose. Per questo ultimo disco ci sono stati tanti libri, anche di autori tedeschi. Ma poi anche filosofi: Ernesto de Martino, Carlo Levi con “Cristo si è fermato a Eboli”, e naturalmente tutti quei testi che raccolgono la cultura locale, la storia del paese raccontata dagli anziani o scritta da qualche parroco…

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