La “vera” Christiane F si racconta: «La mia seconda vita, 35 anni dopo»

© Deutscher Levante Verlag, Christiane F
© Deutscher Levante Verlag
di Natasha Ceci

Non avremo più alcuna voglia di ritornare su. Con questa frase si chiudeva il libro “Christiane F. Noi, i ragazzi dello Zoo di Berlino” nella descrizione di una cava di calce persa nella campagna di Amburgo, come un piccolo Eden nascosto e limitrofo alle droghe.

Eravamo rimasti lì, tra la fuliggine di Bahnhof Zoo, i tacchi e la busta di plastica di Natja Brunckhorst, protagonista della versione cinematografica del 1981, e la mitologia che attraversa una città alimentando iconografie e un eterno dibattito pubblico.

Tutto quello che è sopravvissuto al di là del mito è raccontato dalla stessa Christiane F. e dalla giornalista Sonja Vukovic nel libro “Christiane F. – Mein zweites Leben” (La mia seconda vita), edito dalla Deutscher Levante e in uscita prossimamente in Italia.

La struttura del libro non segue una cronologia e ai racconti di Christiane si alternano gli articoli della Vukovic sulle politiche tedesche in merito alle droghe, sui programmi di sostituzione dell’eroina, sui costi sanitari di recupero e sui nuovi stupefacenti.

Quale è stata la genesi del libro? 
«Lavoravo per la testata tedesca “Die Welt”», dice Sonja Vukovic, «e durante la ricerca di una storia mi sono imbattuta nel trentennale del film di Uli Edel e ho deciso di rintracciare Christiane. Non è stato facile, nemmeno dopo averla trovata e dopo aver conquistato la sua fiducia. Alla fine il materiale che avevo era così ricco che l’idea di un libro prendeva naturalmente forma».

Cosa c’era dopo la cava di calce? Tra il 1981 e il 1984 Christiane tenta la carriera musicale assieme al suo compagno Alexander Hacke, componente della band Einstürzende Neubauten, in seguito trascorre un periodo in Svizzera presso la pittrice Anna Keel, moglie dell’editore svizzero Daniel Keel. Nel 1985 è arrestata per detenzione di stupefacenti e dal 1987 al 1993 vive in Grecia con il fidanzato Panadiotis fino a quando viene arrestato per spaccio e Christiane torna a Berlino.

Nel 1996 ha un figlio e nel 2007 in un’intervista alla televisione tedesca dichiara di assumere metadone e non piu’eroina ma le sue condizioni di salute sono gravi: è affetta da una forma cronica di epatite. Nel 2008 i media possono leccarsi i baffi alla notizia drammatica secondo cui le autorità berlinesi le hanno sottratto la custodia del figlio a causa di una ricaduta nella tossicodipendenza. Eppure la seconda vita di Christiane è molto altro.

Perché ha deciso di raccontarla? 
«Perché i media hanno pubblicato ovunque storie su di me», risponde Christiane, «ma il loro interesse era rivolto solo a capire se fossi ancora una tossicodipendente o no. Io volevo dire: Salve, ho 51 anni, sono una madre, sono ancora viva e non sono più Christiane F. ma la Sig.ra Felscherinow e ho fatto un ottimo lavoro con mio figlio».

Che rapporto ha con il mito di “Christiane F.”?
«Sono diventata famosa improvvisamente. Non potevo immaginare che impatto quel libro avrebbe avuto, io avevo solo sedici anni e raccontare era per me un’ottima terapia. I miei genitori non se ne preoccupavano e sono diventata una star e uno stigma allo stesso tempo. Per il pubblico io ero semplicemente la tossicodipendente più famosa».

La sua biografia è anche la biografia di una generazione? 
«Mi sono sempre chiesta chi fossero quelle persone che leggevano la mia biografia. Ma non mi sono mai chiesta perché: non ritengo che ci sia qualcosa di speciale in essa. Centinaia di persone hanno avuto e hanno una storia simile alla mia».

È cambiata “la scena” della droga oggi? 
«Non credo che sia cambiata molto, tranne per il fatto che puoi chiamare lo spacciatore tramite un telefono cellulare. Ma non sono più in quel giro oggi, sono diventata madre quando avevo 34 anni e da allora sono in un programma di sostituzione».

Cosa pensa delle politiche tedesche sulla droga? Nel quartiere berlinese di Kreuzberg si è acceso un dibattito sulla eventuale apertura di un coffee shop
«Non parlo delle questioni politiche da quando molti giovani consideravano romantico e affascinante tutto ciò che leggevano nel libro con una conseguente pubblicazione di articoli su come genitori e insegnanti potevano seguire questi ragazzi ammaliati da quei racconti. Non so dire se sia un bene o no».

Come immagina la sua terza vita?
«Vorrei una casa in campagna, silenziosa e circondata da animali. Forse vicino a un lago o a un bosco».

«La storia di Christiane non è solo una storia di tossicodipendenza, ma anche quella di una ragazza che deve badare a se stessa, dall’infanzia trascurata, alla ricerca di una propria identità, di un equilibrio», spiega Sonja Vukovic. La ricerca è continua, febbrile, attraversa la storia di una generazione, combatte con uno stigma, quello di essere non Christiane, non Christiane Felscherinow ma Christiane F. per sempre.

Ogni capitolo del libro è una chance che la donna non ha saputo, voluto, potuto cogliere, dietro una ribalta che ha divorato la sua adolescenza e che oggi l’addita come una madre tragica. Se lei è cambiata il mondo attorno ha però la stessa stoffa.

La criminalizzazione dell’eroinomane continua a creare corti circuiti con la doppia moralità di una società intrisa di tossicodipendenze, nel giro di vite del clubbing, della nuova classe creativa, e di tutti coloro che non necessariamente hanno coscienze da espandere ma solo un desiderio di puro stordimento.

La tolleranza, qualora ci fosse, resta apparente, celata come sempre sotto la maschera del controllo sociale. Christiane Felscherinow resta anche un simbolo di una generazione falciata in un luogo specifico, ovvero nella Berlino Ovest degli anni Settanta e Ottanta, perduta tra Est e Ovest, che pulsava decadente sotto la patina glamour e internazionale data da Bowie o Iggy Pop e che cercava di cicatrizzare tutte le sue ferite storiche.

twitter @NatashaCeci
Articolo pubblicato su Alias/Il Manifesto il 4.01.2014