Boyhood, l’attimo che fugge in un film lungo dodici anni

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di Emilio Tamburini

Alcuni lo avranno già visto, altri forse si saranno soffermati sul Plakat del Film, con quel bambino dagli occhi azzurri e un po’ malinconici sdraiato sull’erba. E’ la prima inquadratura del film, che dopo le pennate d’attacco di Yellow (Coldplay, 2000) ci presenta il piccolo Mason intento a guardare le nuvole. Tutti l’abbiamo fatto, scoprendo che sono soggette a un cambiamento lento ma inesorabile, bisogna continuare a guardarle per riconoscerle uguali ma diverse.

Così lo spettatore guarderà Mason crescere. Nei giochi con gli amici del quartiere, nei traslochi più o meno traumatici cui è costretto, negli amori dell’adolescenza, quello stesso volto verrà inquadrato ancora e ancora. La sua è la storia ordinaria di un ragazzino e della sua famiglia altrettanto normale nella sua non normalità. Figlio di genitori divorziati – ben interpretati da Patricia Arquette e Ethan Hawke – lui condivide gioie e traumi con la sorella, e la loro complicità emerge in modo delicato nei week-end in gita col padre musicista e sregolato, nelle gioie e nelle angosce della vita domestica gestita da una madre affettuosa quanto stressata.

Ma non è certo la trama a rendere Boyhood un film unico. Bensì il fatto che Richard Linklater abbia girato questo film nell’arco di dodici anni, dal 2002 al 2013, per una manciata di giorni all’anno, con gli stessi attori e la stessa troupe. Ellar Coltrane aveva sei anni all’inizio del progetto, ma era ormai un ventenne quando è salito sul palco alla première dell’ultima Berlinale, che ha premiato Linklater con l’orso d’argento come miglior regista.

Una bella trovata che era ad alto rischio di rimanere tale, di cadere nel compiacimento, nell’espediente fine a se stesso – senza contare le difficoltà tecniche e logistiche dell’impresa -. Che ciò non sia accaduto si deve al buon gusto del regista texano e ai mille misteriosi fattori che stanno dietro a un film riuscito, ma forse soprattuto al fatto che questa idea sia nata da un’esigenza che l’ha preceduta. Linklater stesso lo racconta in un’intervista: cercava un film sull’infanzia, ma qualunque vicenda circoscritta scegliesse come spaccato per raccontare quel periodo di vita, ciò che voleva rappresentare ne rimaneva fuori. Poi la folgorazione: era il processo ad interessargli, e solo seguendolo tutto in un progetto a lungo termine sarebbe riuscito a mostrare quel concatenarsi di memorie e di momenti che il cinema mainstream sul tema non ha mai messo al centro di una storia. Non ci sono punti di rottura o veri colpi di scena e, ciò che più conta, nelle due ore e quaranta di visione non se ne sente il bisogno.

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Si tratta di scene che non dicono molto di per sé, ma che raccolte e dispiegate lungo lo stesso filo sprigionano una forza particolare, soprattutto se a unirle non sono solo una sceneggiatura semplice e ben scritta e degli ottimi personaggi, bensì il tempo vero, quello della realtà che di solito rimane fuori dallo schermo senza intaccarne la superficie, seduta nelle poltrone in sala. Invece questo film, più di altri del regista che pur in modo diverso avevano esplorato territori simili (cfr. la sua trilogia dei Before), sfrutta in modo virtuoso un cortocircuito tra realtà e finzione. Per questa ragione Boyhood va visto al cinema, dove le risate che piovono generose alle battute più innocenti funzionano come le pistole ad acqua degli spettatori durante il temporale in The Rocky Horror Picture Show. E’ la gioia di partecipare.

Inoltre più di una generazione si può identificare al limite del déjà-vu nei siparietti sulle novità e i simboli globali che emergevano in quegli anni ancora non lontani e di cui la pellicola è sapientemente cosparsa. I primi game-boy, la playstation, la fila alla libreria per ritirare l’ultimo Harry Potter, la campagna di Obama. E se i giovani si sentono chiamati in causa vedendo Mason ciondolare davanti a Dragon Ball Z, ciò che per molti fu a lungo attività sacra del dopo pranzo, questo vale altrettanto per i genitori over cinquanta, a cui le urla belluine di Goku & company sullo sfondo conciliavano allora il riposo pomeridiano. Ma chi più chi meno, tutti davanti a questo film sono sfiorati dalla sensazione di stare sfogliando un album di famiglia. E questo nonostante trasudi America, dal mito dell’Alaska ai feticci dell’estremismo texano, della fenomenologia della casetta con giardino agli hot dog nello stadio, ciò a riprova – nel caso ce ne fosse bisogno – di quanto quell’immaginario sia stato da noi ingerito e digerito a forza di cinema, così che questa storia ci sembra anche nostra oltre e nonostante l’irriducibile grottesco dei costumi statunitensi.

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E’ un’utopia anziana quella di catturare lo scorrere del tempo su pellicola. Calvino scriveva nel 1979: “Per chi vuole recuperare tutto ciò che passa sotto i suoi occhi, l’unico modo di agire con coerenza è di scattare almeno una foto al minuto”. Se anche artisti di ogni sorta negli ultimi decenni non fossero andati alla ricerca di questo sacro Graal dell’immagine, basterebbe la nostra quotidiana esperienza di selfie e auto-narrazione visiva per capire che l’intento non è di per sé nuovo né nobile. Questo è un bel film perché un meccanismo simile è al servizio di una storia raccontata con delicatezza, affetto e con una cura perfetta delle misure.

Forse Boyhood è un ottimo prodotto di un periodo invece non molto salutare per il cinema per come siamo abituati a conoscerlo e ad amarlo, cioè come un mondo capace di parlare di noi attraverso la pura finzione. In fondo la febbre dei documentari che ha preso i festival di cinema e la più triste moda dei reality televisivi sono due facce della stessa medaglia. Se riemerge la sensazione che tutte le trame possibili siano già state scritte, un true-man-show narrativo come questo ci offre qualcosa per cui siamo più disposti a commuoverci, come la vita vera e il tempo che la percorre. E il fatto di dare un po’ di valore in più a quell’attimo che fugge e in cui anche noi vorremmo tanto poter riconoscere la nostra storia. Ricordiamocene con Mason: “Quell’attimo è sempre adesso… ”.

Qui le proiezioni di Boyhood nelle sale di Berlino

Il trailer: