Berlino è femmina. Slogan femministi, diversity e appropriazione: le nuove frontiere del marketing

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di Valentina Risaliti

Il femminismo vende, lo sanno bene i professionisti del marketing, le cui strategie denotano, oggi più che mai, un maggiore interesse per la celebrazione del diverso, l’accettazione del sé e il multiculturalismo.

Il consumismo capitalistico ha trasformato il femminismo in un prodotto sexy, desiderabile, divertente e spregiudicato, conferendogli un’aura di grande accessibilità, a uso e consumo delle masse. Contemporaneamente, i grandi brand si fanno promotori di campagne che sfidano versioni stereotipate del mondo, fino ad arrivare ai paradossi di multinazionali che giocano con successo la carta del diversity, aggiudicandosi i favori di una società sempre più sfaccettata. Viene però da chiedersi se a farne le spese, e non soltanto nel caso del femminismo, non sia in fin dei conti il significato originario dei movimenti stessi, che riducendosi a uno slogan stampato in serie su una maglietta, diventano piuttosto identità usa e getta, qualcosa da esibire in pubblico per stare al passo coi tempi, ma del quale non si afferra il senso ultimo.

Fino a che punto, ci si domanda, le odierne campagne pubblicitarie sono il naturale riflesso del progredire dei tempi o solo l’ultima frontiera di quella fabbrica del consenso già teorizzata da Vance Packard, capace di trasformare anche l’idea più rivoluzionaria in un prodotto reperibile sugli scaffali di un supermercato?

A offrirmi l’occasione per una simile riflessione è stato, ancora una volta, l’annuale appuntamento con il Bread&Butter di Berlino, la rassegna dedicata a stile e cultura organizzata da Zalando.  Per il secondo anno di fila, il noto brand di e-commerce berlinese ha allestito uno showcase negli spazi dell’Arena Berlin, impegnandosi a esplorare le ultime tendenze del mondo della moda, della musica e del food.

Perfettamente in linea con le recenti evoluzioni del marketing, l’edizione di quest’anno si è svolta all’insegna del “be bold”, ossia di un invito al coraggio, all’audacia, alla capacità di abbandonarsi a quella spinta interiore che ci impone di non omologarci, ma anzi di osare ed esprimere tutta la nostra unicità al di là delle convenzioni.

Tra le celebrità invitate spiccavano nomi del calibro di M.I.A. e FKA Twigs, da sempre annoverate tra quelle personalità eccentriche e di controtendenza che l’evento mirava a esaltare. Ma le vere muse del festival sono state senza dubbio la stilista britannica Vivienne Westwood e la modella londinese Adwoa Aboah, due donne che dell’attivismo e dell’accettazione del sé hanno fatto un biglietto da visita. La prima, negli ultimi anni si è fatta promotrice di una campagna per la salvaguardia del pianeta, dichiarando di voler invertire l’espansione del proprio impero a favore di una maggiore sostenibilità. La seconda è invece celebre per il suo attivismo tra le fila delle femministe e per aver creato Gurls Talk, piattaforma che vuole costituirsi come spazio di scambio tra donne, un luogo dove aprirsi senza pregiudizi, promettendosi di sconfiggere tabù ancora troppo insistenti per non cambiarci la vita.

Non volendo in alcun modo screditare l’impegno di queste due professioniste – certamente degno di nota e necessario, proprio perché cerca di far breccia nel sistema dall’interno – viene però ancora una volta da chiedersi fino a che punto due personalità così legate all’universo che intendono criticare possano farsi promotrici di un cambiamento profondo e radicale (Eluxemagazine, rivista dedicata ai beni di lusso sostenibili, qualche anno fa denunciava che non vi fosse traccia di materiali eco-friendly nelle collezioni della Westwood).

Se la cornice in cui esprimere certe idee è ancora una volta quella di un grosso evento all’insegna del consumismo e dell’immagine, ci si domanda se non sia tutto un controsenso, una rivoluzione, per così dire, all’acqua di rose.

In un suo recente testo, la co-fondatrice di Bitch Media, Andi Zeisler, definiva la tendenza a trasformare il femminismo in qualcosa di mercificabile e gradevole “marketplace feminism” (We were feminists once: From rito Grrrl to CoverGirl the Buying and Selling of a Political Movement, Andi Zeisler 2016), constatando che sebbene la visibilità sia il primo passo in qualsiasi lotta civile, quella ottenuta attraverso i canali del capitalismo non favorisce necessariamente la causa. “Il recente successo di un certo tipo di femminismo” scrive la Zeisler in un articolo sul Time “è un promemoria di come il miglior modo di reprimere il potere di un movimento sociale sia quello di mercificarlo”.

Zalando, con il suo Bread&Butter all’insegna dell’audacia, non è di certo né il primo né l’ultimo brand che si fa promotore di un certo set di valori per portare avanti una campagna pubblicitaria di successo. Da anni L’Orèal, attraverso lo slogan femminista “Because I’m worth it” e una strategia di diversity management, traduce in azioni anche molto concrete una filosofia che valorizza la leadership femminile e la diversità culturale. E tuttavia lo fa promuovendo prodotti cosmetici a forte rischio stereotipo, come ci fa notare l’esperta di gender Barbara de Micheli in un suo articolo.

Chiaramente si tratta di un’esigenza: viviamo in un mondo in continua evoluzione, sempre più diversificato. Se i grandi brand vogliono essere competitivi, allora devono capire i bisogni del proprio target, senza pregiudizi che potrebbero rivelarsi fatali, come nel caso dell’autogol di Barilla, fortemente criticato qualche anno fa per aver difeso a spada tratta l’immagine di famiglia tradizionale. Ma è possibile che un gruppo dirigente spesso omogeneo per genere, orientamento sessuale e cultura detenga le chiavi per comprendere un mondo davvero poco uniforme? Ecco forse spiegato perché oggi si assiste sempre di più a una cannibalizzazione dei nuovi linguaggi nati in rete e a scenari in cui sono i blogger, gli influencer e, in generale, i fruitori a dire alle grandi aziende cosa piace e cosa no.

Lungi dal giudicare come negativa una rivoluzione dei modelli presentati dalla pubblicità che prende le distanze da pericolosi stereotipi, bisogna però considerare i rischi impliciti in simili associazioni. Come sottolineato da Nancy Fraser in Feminism, Capitalism and the Cunning of History, una delle raison d’être alla base del movimento femminista era proprio quella di voler smontare il capitalismo, inteso come una moderna forma di patriarcato. Tuttavia, una seconda ondata di femminismo si è fatta promotrice di un’ideologia che vede l’emancipazione femminile profondamente legata a una nozione capitalistica di potere. La Fraser conclude mettendoci in guardia sui pericoli impliciti nella liason tra femminismo e marketization.

Appare sempre più evidente che il capitalismo può essere associato non solo al femminismo, ma anche alla salvaguardia dell’ambiente e alla lotta per l’accettazione del diverso. Se la visibilità che il mercato conferisce ad alcune cause politiche e sociali è certamente positiva, d’altro canto i rischi sono impellenti. Per parafrasare ancora una volta la co-fondatrice di Bitch Media: “Il marketplace feminism ci dà l’impressione che il femminismo sia divertente, ma il problema è che non lo è e non è tenuto ad esserlo. Il femminismo è complesso e duro e infastidisce le persone. È serio perché riguarda un gruppo di individui che chiedono il riconoscimento della propria umanità. Le problematiche che il femminismo affronta come la disuguaglianza, le divisioni di genere, il razzismo istituzionale, la violenza strutturale, l’autonomia corporea e il sessismo sono tutt’altro che sexy”.

VALENTINA RISALITI è una reporter, videomaker e producer, con la passione per il documentario d’autore, i libri (tutti) e le teorie del complotto. Degna discendente di una famiglia di “amazzoni”, è da sempre legata ai temi del femminismo, della difesa dei diritti delle donne e al rispetto dell’ambiente. Idealista incallita, viene spesso tacciata da amici e parenti di essere insopportabilmente critica. Ha studiato filosofia e giornalismo e ama riconoscersi nelle parole delle grandi donne del passato. Oggi vive a Berlino, dove tra un libro di Patti Smith e uno di Simone de Beauvoir, si dedica a diversi progetti.  www.valentinarisaliti.com / Twitter: ValentinaRisal